Foto di Joel Peter Witkin
INFORMAZIONI:
dove: Seravezza (LU)
presso: Palazzo Mediceo
orari: ore 15.00- 20.00 (chiuso il lunedì)
biglietti: ingresso: intero € 5,00 – ridotto € 3,00
Una mostra senza precedenti quella che il 20 gennaio prossimo sarà inaugurata a Seravezza (Lucca) nelle sale espositive di Palazzo Mediceo.
“Joel Peter Witkin” è il titolo della personale dell'artista americano, conosciuto in tutto il mondo per le immagini dal forte impatto emotivo: 54 opere, accuratamente selezionate dai curatori di Photology, che impongono all'attenzione del pubblico e della critica la personalità stessa di Witkin. Una retrospettiva, visitabile fino all'8 aprile, che riassume la carriera del fotografo, dagli anni '80 ad oggi, percorrendo le tappe evolutive del suo pensiero e della sua sperimentazione artistica.
Joel Peter Witkin ha dedicato la sua carriera di fotografo alla ricerca minuziosa della perfezione di immagini che non sono mai semplici scatti, ma vere e proprie creazioni scenografiche, collage di elementi tesi a costruire un senso, che di volta in volta è il sentimento stesso dell'artista.
Ispirandosi ai grandi maestri della tradizione pittorica (Goya, Botticelli, Picasso, Velazquez, Ernst, Bosch) ha reinterpretato i capolavori del passato, facendo uso di soggetti e oggetti che l'arte spesso rifugge.
Nei suoi fermo-immagine c'è spazio per tutto ciò che la convenzione definisce diverso: il grottesco, il deforme, la mostruosità, perchè “tutto ciò che il mondo considera bello è solo una parte della realtà, fatta di contraddizioni, di lotte interiori, nel continuo rincorrersi di sentimenti di vita e di morte”.
Le sue grandi fotografie in bianco e nero si fanno teatro per la messa in scena dell'inesorabile, drammatico, spettacolo della vita. Immagini che smantellano i preconcetti e impongono nuovi modi di tollerare le differenze e le umane alienazioni.
La grande retrospettiva di Joel Peter Witkin, si presenta a Seravezza, privilegiato centro per l'arte fotografica internazionale, con tutta la sua imponenza e con una importante novità: un catalogo bilingue (italiano/inglese), edito da Photology, formato tascabile, con le immagini del percorso allestito a Palazzo Mediceo.
LA MOSTRA E LA POETICA ARTISTICA DI JOEL PETER WITKIN
Nel ventesimo secolo la società occidentale corrisponde al “sistema mercato”. L’obiettivo primario è il profitto e la suddivisione delle masse in target di consumo, in codici di riferimento con la conseguente normalizzazione comportamentale dell’individuo. Ecco affermarsi gli slogan della globalizzazione: “cacciamo i diversi”, “via quelli che escono dallo stereotipo”. La società impone di rimuovere le anomalie e di dimenticare le mostruosità della vita di tutti i giorni. Vengono nascoste le notizie più cruente (le torture in Cecenia), le foto più crude (Lady D. nell’auto accartocciata sotto il ponte dell’Alma), si boicottano i filmati dei suicidi dal Golden Gate. L’uomo e il suo “sistema potere” ha paura della destabilizzazione: ciò che è deforme è sinonimo di caos, di disordine.
“[…]Il mostro rappresenta la violazione delle leggi naturali, il pericolo che incombe, l’irrazionale che non possiamo più dominare” scrive Umberto Eco in Apocalittici e integrati edito da Bompiani nel 1987.
Solo certi avamposti della società come cultura e arte già verso metà del Novecento rifiutano le convenzioni. Intellettuali, artisti, poeti non accettano di vivere immersi in un irreversibile sonno della ragione. Esempi come il Futurismo in Italia, il movimento Surrealista in Francia, poi la Beat Generation in America non sono altro che vampate di rifiuto di tutto ciò che è convenzionale, un apprezzamento intellettuale per certe “mostruosità” del mondo.
Sì, perché in fondo il mostro è attraente, seducente; Hannibal “the cannibal” prima affascina poi conquista le sue prede….
Attraverso quadri come Guernica anche l’arte comincia a convivere con le deformazioni della società moderna e il brutto, per così dire, diventa bello. Le guerre e le atrocità della prima parte del ventesimo secolo ci insegnano che il mondo non è tutto rosa e fiori. Un disagio che in pittura e scultura è alquanto evidente già nel primo dopoguerra e che esplode con tutta la sua forza alla fine degli anni Quaranta.
In fotografia i primi esempi di “estetica del brutto” vengono da fotoartisti indipendenti, che non lavorano con i giornali. Il gruppo della Farm Security Administration (Lewis Hine, Dorothea Lange, Walker Evans) inviati dal governo americano a registrare la catastrofe economica della crisi del ‘29. Poi Robert Frank che già negli anni quaranta con le sue immagini suburbane ci mostra i prodromi di un’America post-moderna.
Ma solo con Diane Arbus il mostro esce in pubblico, e nel vero senso della parola. Subito dopo la sua morte, avvenuta per suicidio nel 1971, le opere della leggendaria fotografa riempiono il padiglione americano alla biennale di Venezia del 1972. Freaks, transessuali, nudisti, prostitute, nani: Ecco un’America mai vista, servita sul piatto dell’arte.
La Arbus è in anticipo su tutta una schiera di artisti, fotografi, performers: Arnold Swarzkogler, Gina Pane, Robert Mapplethorpe, Aziz+Cucher, Orlan, Franko B, Andres Serrano, Ron Athey, Stelarc, i fratelli Chapman ci fanno intuire quello che è il vero cambiamento nella cultura contemporanea. Se buona parte del secondo millennio è stata caratterizzata dalla ricerca scientifica e dalla sua applicazione tecnologica nell’ambiente esterno, i primi anni del terzo millennio hanno un nuovo punto focale: l’uomo e il suo il corpo.
Joel Peter Witkin si ascrive, chiaramente, pur nell’ambito di una sua personale ricerca, in questa nuova corrente e, parte da un percorso drammatico e personale, quanto prematuro, il vedere la caducità, la vulnerabilità e la debolezza dell’”involucro” umano. A soli 6 anni Witkin vede rotolare fra i suoi piedi la testa di una bambina. Il suo è un racconto drammatico ma lucido, quasi ispirato: “Fu uno schianto pauroso..erano coinvolte tre auto, tre intere famiglie. Poi mi ritrovai qualcosa tra i piedi, era una testa decapitata di una bimba piccola. Questa esperienza mi ha fatto capire che con la fotografia in un qualche modo avrei dovuto rappresentare la morte di un’altra persona”.
I titoli dei lavori di Witkin sono emblematici: Man without a head, Atrocitè, Woman once a bird, Siamese twins, Portrait of a dwarf…
Nonostante una certa dose di “atrocitè”, per l’appunto, le sue immagini conquistano il pubblico, entrano nei musei di mezzo mondo. Curatori, galleristi e collezionisti non se ne fanno una ragione... L’analisi che mi pare più convincente non viene da un critico d’arte:
“Il mostro ha un alto contenuto di identità, esce dall’omologazione, dimostra la sua unicità, si staglia dalla massa indistinta e anonima. Se il normale è comune, medio, il mostruoso è straordinario. Il mostro è l’esatto opposto della mediocrità “.
Quella di Witkin non è una semplice deformazione dell’immaginario, un transfert di terrore, ansia e comportamenti atavici, né un tentativo di rifarsi a antichi sortilegi, credenze, mitologie…
Il suo riferimento iconografico non è l’arte di Bosch, Caravaggio, Velaszquez, Botticelli. Il suo è piuttosto un forte legame con il dramma del Novecento: la crisi del ‘29, l’olocausto, l’atomica su Hiroshima, fino all’11 Settembre. Il giovane Joel-Peter che tra gli anni Trenta e Quaranta è poco più che bambino vede le fotografie della Grande Depressione fatte dalla F S A, quelle dei campi di concentramento pubblicate su “Life”, quelle di Eugene Smith al ritorno dal Giappone post-atomico. Come per Diane Arbus ne esce un mostro generato dalla crisi sociale, da quella parte di mondo che urla.
Dall’introduzione in catalogo a cura di Davide Faccioli