Foto di Franco Giacopino
INFORMAZIONI:
vernissage: 7 Gennaio 2010 h.19.00
dove: Bari (BA)
presso: Associazione Culturale Galleria BLUorG, Via M. Celentano 92/94
orari: dal lunedì al sabato.
Orari 10.00 - 13.30 / 17.00 - 20.30
Domenica su appuntamento
biglietti: ingresso libero
a cura di: Antonella Marino
Direzione artistica Giuseppe Bellini
Assistente Gaia Valentino
Siamo nell’età del database come “forma simbolica” del nostro tempo, ha scritto Lev Manovich, teorico russo dei new media. Ovvero, nell’epoca dell’accumulazione delle informazioni, di un’overdose che ci spinge ad archiviare, catalogare, riordinare. E’ una logica che percorre gran parte dell’arte contemporanea, da Duchamp in poi. Sono moltissimi infatti gli artisti che scelgono di relazionarsi al calderone preesistente delle forme, infiltrando al suo interno scarti di significato solo attraverso un processo di manipolazione e ricombinazione. E che segnalano così anche il bisogno di un’ “ecologia visiva”, la necessità di non aggiungere altri segni ai tanti già esistenti.
A questa stessa cornice di pensiero si può ascrivere quella che Rosalind Krauss definisce la “reinvenzione del medium”: la tendenza cioè a dare un senso nuovo a tecniche e linguaggi tradizionali e spesso obsoleti.
Un’ operazione concettualmente sofisticata cui tra l’altro ben si presta la fotografia, già di per se’ strumento di archiviazione e accumulo di immagini. E un’ operazione che Franco Giacopino sembra di recente portare avanti, con singolare specificità.
L’ opera di ricatalogazione e “reinvenzione del medium” non si applica infatti nel suo caso ad esempi prelevati da contesti altri. Ma viene esercitata con sforzo inedito su se stesso, sulla sua produzione fotografica precedente.
Grafico pubblicitario per mestiere (è art director di una storica agenzia barese di marketing e comunicazione, l’ADCOMPANY) e creativo a tutto campo, Giacopino da sempre conduce una parallela attività di fotografo. Dagli anni settanta ad oggi questo interesse l’ha visto sperimentare generi classici come il ritratto, la natura morta o il paesaggio, con attenzione da un lato ad una ricerca estetica nutrita dal confronto con la Storia dell’arte alta (tra Rembrandt e Morandi per intenderci); dall’altro ad una tensione conoscitiva e documentaria che l’ha spinto ad esempio lungo gli Appennini sulle vie di greggi in transumanza, o sulle due sponde adriatiche di Puglia ed Albania…
Nell’ultimo anno però qualcosa è entrato in crisi. Un’urgenza diversa si è insinuata in questa passione, la volontà forse di fare i conti col passato per intraprendere nuove strade. Ed è proprio sul suo vasto repertorio in bianco e nero che Giacopino ha esercitato un nuovo sguardo. Rivolgendosi ad esso, previa selezione, come un campionario da reinventare, appunto, con un personale lavoro di decostruzione, che ribalta nuovamente la direzione dei rapporti tra fotografia e pittura.
Intervenendo su queste immagini, dopo averle ingrandite e ristampate su tela, mediante l’applicazione di colle a spatola o a pennello, l’autore innesca infatti uno strano processo chimico dì assonanza pittorica. I prodotti vinilici penetrano nella trama della tela e mettono in moto (sia pur un brevissimo tempo, finché non si asciugano) i pigmenti della foto. Liberato dall’ originaria consistenza l’inchiostro si mette in movimento in modo ora più fluido ora più addensato, creando macchie e cancellature, isolando i soggetti o annullandone la perfezione con textures “a pelle”, casuali al punto giusto, tanto da non sfuggire cioè del tutto ad un controllo . La fine del processo è suggellata poi dalla trasposizione finale su tavola in legno, che ne congela per sempre la nuova, ambigua identità.
In questo modo la serie di nudi femminili perde definizione, presentandosi a volte mutilata in alcune parti del corpo. I frutti e gli oggetti delle still life, all’origine connotati da una morandiana fissità, si stagliano invece isolati dagli sfondi, acquisendo un’ intrigante “astanza” plastica e luminosa. Mentre i paesaggi, naturali o extraurbani, valorizzano gli scarti di ripresa e si caricano di sospesa visionarietà.
Assistiamo così in qualche modo all’annullamento di un modello di perfezione, con rimandi impliciti all’idea di’ “errore” e di “disordine” quali fattori che generano complessità e aprono la strada ad un’ avanzamento di coscienza, secondo le interessanti teorie di Egdar Morin.
Come cimeli, reperti d’affezione e della memoria risignificati e attualizzati, questi lavori mettono dunque in scena un processo analitico di sparizione della fotografa. Da “ex voto” si fanno in pratica autoironici “ex foto” : ibridi approdi di un gesto di cancellazione del passato proficuamente in bilico tra distruzione e ricostruzione, azzeramento e progettuale apertura verso qualcos’ altro…
Antonella Marino
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